Partiamo dalla fine. Nel mese di Maggio 2019 l’OMS – l’Organizzazione Mondiale della Sanità – ha inserito il gaming disorder, che noi possiamo tradurre con dipendenza da videogiochi, tra le malattie diagnosticabili. Per l’OMS si può parlare di gaming disorder quando si evidenziano “una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da: un mancato controllo sul gioco; una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questa diventa più importante delle attività quotidiane e sugli interessi della vita; una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative, personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti”. L’arco temporale in cui questi sintomi devono verificarsi è di 12 mesi, anche se il tempo può variare a seconda delle situazioni e della gravità.
La dipendenza da videogame è quindi a tutti gli effetti, almeno per la medicina, una malattia. Ma stabilire se il comportamento di un bambino o di un ragazzo che gioca a un videogioco è patologico oppure no è piuttosto problematico. Vediamo insieme il perché.
Dipendenza da videogiochi: difficile da diagnosticare
Quando ci troviamo di fronte a dipendenze che in termini tecnici si definiscono “comportamentali” non è mai semplice stabilire il confine tra un comportamento sano, normale, e uno patologico. Negli anni i videogame sono infatti diventati sempre più popolari e il numero di giocatori di tutte le età è in costante aumento. Li possiamo giocare su vari dispositivi e non esiste di fatto un momento della giornata in cui non sia possibile essere raggiunti da un videogioco. Un videogame può essere inoltre un momento di socialità, di scambio e confronto tra persone. Per non parlare degli e-sports, ovvero videogiochi praticati a livello sportivo, agonistico, professionale.
Ho volutamente fatto un elenco di motivi che possono fin da subito farci toccare con mano la complessità nel definire una volta per tutte il gaming disorder come patologia. Per esempio, un ragazzo che gioca tanto perché vuole diventare un gamer professionista, e che quindi fa delle sessioni di gioco quotidiane con l’obiettivo di diventare sempre più forte, è dipendente?
E che dire dei tempi di gioco aumentati a causa delle varie quarantene di questo anno abbondante di pandemia? Sono tutti, bambini e adolescenti, diventati dipendenti? Il videogioco per molti di loro è stato ed è un momento di distrazione, di scambio con gli amici, di tempo impiegato in un’attività che offre gratificazioni e soddisfazioni. Che fa vivere esperienze uniche e intense.
L’errore da non fare
Un errore che troppo spesso facciamo è quello di considerare il videogame alla stregua di una sostanza stupefacente. In questo modo, però, spostiamo il nostro sguardo dal bambino o dal ragazzo e dal suo modo di giocare all’oggetto videogame. L’errore è duplice. Il primo, quello a cui tengo di più, è che ci dimentichiamo di osservare nostro figlio. Il secondo è che il gaming disorder, come detto, è una dipendenza comportamentale e quindi la nostra attenzione non deve focalizzarsi sul gioco ma sul comportamento che la singola persona ha con quel gioco.
Bambini e videogiochi
Il fatto che un bambino giochi a un videogioco, che/essere-neo-connessi/ lo faccia con passione, non deve quindi spaventarci più di tanto. Il videogioco, lo ribadisco, non è una droga e da solo non può innestare una dipendenza nel minore. La nostra attenzione deve allora spostarsi sul tipo di gioco, che deve essere adatto alla sua età, e al modo in cui il bambino si approccia al gioco stesso. Un videogioco che attiva eccessivamente il bambino non andrebbe ad esempio giocato poco prima di fare i compiti o di sedersi a tavola, men che meno la sera prima di addormentarsi. Aiutiamolo poi a regolare il tempo in cui gioca, stimolando in lui una sempre maggiore autonomia ed evitando di diventare solo i controllori del tempo. Infine, interessiamoci a quel gioco che lo appassiona. Ma soprattutto, evitiamo di usare espressioni come “sei dipendente” piuttosto che “è come una droga”. Non solo non lo aiutiamo, ma rischiamo di peggiorare la situazione e la nostra relazione con lui.
Adolescenza e videogiochi
Il discorso non cambia più di tanto quando a giocare sono i più grandi. Nel complesso percorso di crescita di un adolescente, le motivazioni che spingono a giocare a un videogame possono essere molto diverse. La ricerca di socialità, il fare esperienze positive, il mettere alla prova le proprie capacità sono tutte motivazioni che possono certamente tenere l’adolescente attaccato allo schermo per tante ore, ma che molto probabilmente non lo porteranno a sviluppare sintomi patologici. In queste situazioni il videogioco potrebbe anche avere un ruolo positivo nel suo percorso di crescita. Al contrario, se il videogame diventa un rifugio, un luogo in cui nascondersi per evitare di affrontare l’altro, piuttosto che l’unico posto in cui il ragazzo si sente al sicuro e protetto, potrebbe essere un problema. L’attenzione deve quindi per forza essere spostata dal videogame al ragazzo, mettendo il suo modo di giocare in rapporto al suo mondo di relazioni.
Attenzione alle parole che utilizziamo
Quando l’OMS ha inserito il gaming disorder all’interno del suo manuale diagnostico si sono alzate molte voci critiche, compresa la mia. C’è però un aspetto positivo in tutto questo: siamo obbligati a porre più attenzione alle parole. Come detto precedentemente, evitiamo di diagnosticare una dipendenza ai nostri figli, bambini o adolescenti che siano, solo perché giocano tanto e con passione ai videogame. Al contrario, alziamo il nostro sguardo e cerchiamo di capire quali sono le motivazioni che li spingono a giocare in quel modo in quel determinato periodo della loro vita.